La Repubblica – Stipendi e qualità della vita: il welfare cattura i talenti.



Le Pmi fidelizzano i dipendenti con i benefit, ma se al Nord gli italiani si dicono contenti della propria occupazione, le percentuali crollano al Sud

 

Il welfare aziendale è ormai diventato una solida realtà anche in Italia ed è ampiamente utilizzato dalle imprese per fidelizzare i propri dipendenti e per trovare quelle figure che ancora mancano nel loro organico. Ci sono però profonde differenze fra Nord e Sud e fra lavori ben pagati e lavori pagati poco. Il welfare aziendale e, più in generale, un ambiente lavorativo attento alle esigenze dei dipendenti sono infatti elementi che caratterizzano le imprese più avanzate, mentre la strada da fare nel resto del tessuto produttivo italiano è ancora molta. È questo il quadro delineato da numerosi studi, a partire dal recente rapporto Bes (Benessere equo sostenibile) dell’Istat, i cui dati, incrociati con quelli della Cgia di Mestre, lasciano supporre che il divario sia destinato ad aumentare. Le imprese che già implementano soluzioni di welfare aziendale ne hanno capito l’importanza soprattutto in un’ottica di attrazione dei talenti ed è quindi probabile che aumentino i propri sforzi su questo fronte. I datori di lavoro, invece, che puntano tutto sulla compressione del costo del lavoro sono per definizione poco propensi a mettere in campo delle misure in grado di migliorare l’ambiente di lavoro, cosa che li farà inevitabilmente scivolare ulteriormente verso il basso nelle classifiche dedicate alla soddisfazione dei dipendenti.

“Dopo l’avvento della pandemia, anche il nostro mercato del lavoro ha subito trasformazioni importanti – spiegano gli esperti della Cgia di Mestre – In molte aree del Paese, ad esempio, le imprese faticano sempre più a trovare profili con competenze adeguate; pertanto, mai come in questo momento hanno la necessità di fidelizzare i propri collaboratori. Questa operazione sta avvenendo per mezzo di una serie di comportamenti molto virtuosi come, ad esempio, la corresponsione di retribuzioni più elevate, la trasformazione dei contratti a termine a tempo indeterminato, la possibilità di consentire ai dipendenti orari di lavoro più flessibili, attraverso il ricorso a strumentazioni professionali più innovative, favorendo gli avanzamenti di carriera e, infine, con l’implementazione di benefit e di welfare aziendale. Nel Nord questo processo di miglioramento del benessere aziendale, soprattutto nelle Pmi, è ormai in corso da qualche anno”.

In cima alla classifica delle regioni con la più alta qualità del lavoro si trova la Lombardia, seguita dalla Provincia autonoma di Bolzano e dal Veneto. Si comportano però molto bene anche la Provincia autonoma di Trento, il Piemonte e la Valle d’Aosta. Tutto il Settentrione è dunque ben rappresentato. Resta invece indietro il Mezzogiorno, le cui regioni occupano la parte bassa della graduatoria (con l’eccezione della Sardegna). Le situazioni più critiche si trovano in Sicilia, Calabria e Basilicata.

Secondo i dati Istat, guardando al solo fattore “soddisfazione per il proprio lavoro” (la ricerca ne prende in considerazione otto, che vanno dalla retribuzione alla tipologia di contratto), la regione più virtuosa è la Valle d’Aosta con il 61,7% di lavoratori soddisfatti, seguita dalla Provincia autonoma di Trento (61,1%) e quella di Bolzano (60,5%). La maglia nera di questa particolare classifica, che prende in considerazione l’appagamento per il livello di retribuzione ottenuto, le ore lavorate, la stabilità del posto, l’opportunità di carriera e la distanza casa/lavoro, è la Campania (41,2%).

Entrando nel dettaglio del welfare aziendale vero e proprio, ovvero quell’insieme di benefit e servizi che le aziende offrono ai propri dipendenti per migliorare il loro benessere andando oltre la semplice retribuzione economica, il rapporto Welfare Index Pmi promosso da Generali in collaborazione con Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, Confprofessioni e Confcommercio, individua dieci aree, alcune più mature e quindi sviluppate e altre meno. L’indagine, che si concentra sul mondo delle piccole e medie imprese, ha rilevato una forte presenza di iniziative nelle aree “previdenza e protezione”, “condizioni lavorative e sicurezza”, “salute e assistenza”, “diretti, diversità e inclusione”, “conciliazione vita-lavoro” e “sviluppo del capitale umano”.

Meno gettonate ma comunque ben presidiate sono invece le aree “responsabilità sociale verso consumatori e fornitori”, “sostegno economico ai lavoratori” e “welfare di comunità”. La decima, “sostegno alle famiglie per educazione e cultura”, risulta essere infine quella meno matura.

“Il welfare aziendale è un nuovo protagonista del sistema di welfare italiano dal 2016, quando la Legge di stabilità e i successivi decreti attuativi diedero un quadro normativo e un forte incoraggiamento fiscale alle iniziative delle imprese volte a promuovere il benessere dei lavoratori e delle loro famiglie – si legge nel rapporto – La rigenerazione del welfare italiano non può essere sostenuta dalla sola iniziativa pubblica, la cui spesa corrente non è in grado di crescere, né dalla spesa individuale delle famiglie, che ha raggiunto livelli difficilmente sostenibili. Il welfare aziendale, se adeguatamente incoraggiato, è in grado di accrescere ulteriormente la propria iniziativa, nell’interesse stesso delle imprese. Queste, inoltre, possono agire come aggregatori di domanda, organizzando un accesso collettivo ai servizi e riducendo in tal modo il costo delle prestazioni”.

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